da admin il lun mar 31, 2025 11:37 am
Novanta minuti di urla nelle orecchie. «Vergogna», «venduto», «signoreeee», «cambia lavorooooo». Novanta minuti da solo, conteso fra giocatori stanchi, tifosi arrabbiati, tecnici ansanti, spogliatoi freddi, vento e sudore. «È normale, tutti vogliono vincere, noi facciamo solo rispettare le regole. E impariamo a conoscere l'umanità». Mustapha è un arbitro di Prima Categoria. Arriva in campo con due ore d'anticipo. Indossa scarpe eleganti e cappotto, ha con sé la borsa con i cartellini, il fischietto, i ricambi. Dopo aver lavorato tutta la settimana in un cantiere come elettricista, si sveglia presto, e la domenica è in divisa nella periferia di un paese campano, per farsi pregare, insultare, ringraziare, deridere e apprezzare per due ore. «È il mio impegno».
Mustapha Jawara è il primo arbitro migrante: ufficialmente iscritto all'AIA, l'Associazione Italiana Arbitri quando era ancora al centro d'accoglienza. Nato in Gambia, è arrivato in Italia dopo sei mesi dentro le prigioni libiche, superate quando aveva solo 16 anni. Sulla barca con la quale ha attraversato il Mediterraneo sono morti tre suoi compagni di viaggio. A Salerno, dove sbarca, cambia tutto. Incontra una maestra d'italiano che è ancora la sua famiglia d'elezione e un volontario, Massimo Manzolillo, che lo introduce al mondo dell'arbitraggio. «È grazie a lui che ho scoperto il corso di formazione e da lì sono diventato arbitro, trovando nuovi amici e colleghi meravigliosi», racconta: «A noi arbitri nessuno fa il tifo. Ma ci sosteniamo l'un l'altro. Siamo un'unica squadra». La storia di Mustapha torna d'interesse nazionale in un momento nel quale l'AIA deve fare i conti con l'aumento di episodi di violenza, passati da 342 a 528 la scorsa stagione. Sono minacce e pestaggi, con un record nei campionati regionali, come quello dove arbitra Mustapha, dove i direttori di gara hanno accumulato 699 giorni di prognosi in due anni. Lavorare sull'inclusione è l'unica risposta.
Perché il calcio ha molta terra da recuperare a riguardo. Nel 2024 l'Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori del ministero dell'Interno (Oscad) ha indicato come il 90 per cento degli atti d'odio che riguardano lo sport avvenga fra due porte, dove le segnalazioni sono passate da 77 del 2022 ai 96 del 2023. Si tratta ovviamente di una punta dell'iceberg. I crimini d'odio sono difficili da segnalare. Su 213 segnalazioni all'Ufficio nazionale antidiscriminatori per atti ostili nello sport, il 64,3 % è su base etnica/razziale, come sottolinea “Monitora - monitoring discrimination and racism in sport”, un progetto di ricerca coordinato dall'associazione Lunaria e dall'Unione Italiana Sport per Tutti (Uisp), sostenuto da Erasmus+ per lo Sport, un piano di finanziamenti europei che ogni anno sostiene dai 50 ai 60 milioni di euro di progetti dedicati alla cooperazione, agli eventi, e alla formazione sportiva, con un'attenzione particolare ai percorsi di inclusione.
La presenza serena e seria di Mustapha in campo è l'esempio che cambiare è possibile. L'AIA dopo anni di crisi delle vocazioni, è tornata a superare i 33mila associati grazie anche all'aumento della componente femminile e delle presenze di associati con background migratorio. Per Mustapha, scappato da una famiglia dove il calcio era vietato, la palla proibita per motivi religiosi, rincorrere dei giocatori di Prima Categoria ogni domenica non è un peso. «Ho preso tante decisioni, da quando sono partito dall'Africa. Ma il vero significato della parola “scelta” l'ho imparato diventando arbitro», racconta: «Essere arbitro mi ha insegnato la responsabilità, la determinazione nel prendere una decisione, e la forza di difenderla. Oggi grazie all'arbitraggio so dire no quando è no, e sì quando è sì».
Alberto Gottardo e Francesca Sironi / CorriereTv